I tagliatori di teste
Al termine della sua prima lezione avevo già deciso chi sarebbe stato il mio relatore per la tesi della triennale e, dopo averlo incontrato, avevo già il titolo: Peter Gabriel, videoscape e sincretismo musicale.
Videoscape e sincretismo. Strane parole vero?
Una delle cose più belle dell’antropologia, a mio avviso, è proprio questa: il suo continuo tentativo di liberarsi dalle catene imposte dal linguaggio. Durante le lezioni con il prof Canevacci mi sono reso conto di quanto le parole possano renderci schiavi …ricordo come se fosse ieri (e invece sono passati più di 15 anni, porca paletta) il giorno in cui fece notare alla sua classe come non esista il plurale della parola Sangue…
Questo processo di analisi critica del linguaggio ci aiuta a comprendere le diseguaglianze sociali di una comunità, intrise a tal punto da riflettersi proprio nella lingua comune.
Da qui una delle ipotesi interpretative più affascinanti, sto parlando della SAPIR-WHORF: la lingua influenza fortemente il pensiero, e le persone che parlano lingue diverse vivono in mondi differenti dal punto di vista cognitivo.
Sono le nostre stesse parole a condizionare e formare il nostro pensiero.
Come per il plurale di Sangue, questa impietosa schiavitù del singolare la trovo decisamente attuale. Questo continuo spostamento sull’Io mi ricorda tanto il bisogno maniacale che abbiamo oggi di esprimere il nostro pensiero, il nostro essere (e perché no, pure il nostro avere) sui Social.
Eppure c’è un concetto che contrasta con forza questo dilagare dell’Io.
Non credo che scorderò mai quella lezione di Antropologia, così come il libro che esplora questo concetto… sono quei testi che ti cambiano la vita, uno di quelli che modifica radicalmente il tuo modo di pensare.
Il concetto in questione è quello di posizionamento e il libro che ci introduce a questo straordinario concetto antropologico è quello di Renato Rosaldo, antropologo che negli anni ‘70 avviò un percorso di ricerca sulla comunità degli Ilongot, nelle filippine, più conosciuti per la loro fama di tagliatori di teste.
La particolarità di questa cultura consisteva infatti nel tagliare la testa di uno sconosciuto (solitamente un nemico) per esorcizzare e sfogare la rabbia prodotta dalla morte di un parente o di una persona molto cara.
La domanda che Rosaldo si poneva era questa: perché veicolare la rabbia verso il taglio di una testa? Gli Ilongot rispondevano che lo sfogo portava loro una sensazione di benessere, come di una pace ritrovata.
Per il mondo occidentale questo concetto è difficile, forse impossibile, da comprendere: la nostra cultura è abituata a esprimere il lutto e la disperazione attraverso la tristezza, mentre la cultura Ilongot la esprime attraverso la rabbia.
Non è nemmeno possibile avvicinarsi alla comprensione di questa pratica se l’antropologo non è in grado di “ri-posizionarsi”, di guardare la cose dalla prospettiva di un’altra cultura, cosa che può avvenire soltanto liberandosi dalle gabbie interpretative della cultura occidentale.
Ma non è tutto.
Durante la sua ricerca Renato Rosaldo fu chiamato per combattere nella guerra del Vietnam. Gli Ilongot, proprio loro, spietati cacciatori di teste, gli proposero di disertare, nascondendosi nel loro villaggio.
A quel punto Rosaldo rimase sbalordito.
Possibile che gli Ilongot, così violenti nella manifestazione delle loro reazioni emotive, fossero contrari alla guerra?
Gli Ilongot consideravano i soldati uomini che vendono il proprio corpo a un’autorità superiore. Una gerarchia verticale, un dominio servo/padrone totalmente estraneo alla cultura paritaria degli Ilongot.
Questa mercificazione del proprio corpo, questo vendersi al servizio di una presunta entità superiore (lo Stato) per gli Ilongot era intollerabile… esattamente come per noi è intollerabile il taglio di una testa.
Proprio grazie al confronto, a una sorta di empatia in negativo, in cui si mette sul tavolo il peggio delle rispettive culture, Rosaldo arrivò a una comprensione più profonda di una cultura così lontana dalla nostra.
Pensiamoci un attimo. Viene spontaneo dare dei selvaggi agli Ilongot per la loro pratica di tagliare la testa, eppure, proprio noi che giudichiamo, abbiamo accettato la guerra come fosse nell’ordine normale delle cose. Il pensiero di essa non ci disgusta come il taglio di una testa.
Annientiamo il nostro punto di vista e diventiamo tutt’uno con l’altro.
In un momento come questo in cui sembra conti soltanto il numero dei like, in cui vogliamo a tutti i costi imporre il nostro punto di vista su vaccini e pandemia, sulla crisi politica, sulle restrizioni costanti a cui siamo sottoposti e che ci allontanano ancora di più dagli altri… così tanto da trasformarci tutti in estranei.
Distruggiamo il nostro punto di vista e ri-posizioniamoci.
Entriamo nelle carni di coloro che NON siamo.
Tagliamo una testa. La nostra.