Michele Morrone e il prezzo di essere visto

Michele Morrone e il prezzo di essere visto raccontano molto più di uno sfogo in tv
Michele Morrone e il prezzo di essere visto si intrecciano oggi in un racconto che sfugge ai facili elogi o alle condanne nette. Dopo l’intervista a Belve e, soprattutto, dopo lo sfogo social che ha infiammato il dibattito, resta un interrogativo che ci interessa più di tutti: Michele Morrone sta attaccando davvero il sistema del cinema italiano, o ne diventa semplicemente un’espressione speculare, con ruoli invertiti?
La rabbia come linguaggio pubblico non è mai neutra.
E quando prende la forma di una dichiarazione che generalizza, che accusa in blocco, che disegna nemici culturali e politici con tratto grosso, rischia di somigliare molto a ciò che pretende di combattere. Morrone parla di “circoletto italiano”, di attori finti impegnati, di ipocrisia radical chic. Ma mentre li critica, ne adotta inconsapevolmente i toni. La sua è davvero un’altra voce o è solo l’altra faccia della stessa dinamica: una lotta per il riconoscimento in un’arena in cui il riconoscimento è tutto?
Dove finisce lo sfogo e dove inizia la costruzione dell’alternativa?
È facile distruggere le regole quando si è stati esclusi dal gioco. Ma più difficile è proporne di nuove. Morrone sembra voler dire: “Non voglio far parte di questo sistema”. Eppure, nel modo stesso in cui si racconta – tra ferite, rifiuti, provocazioni – resta inevitabilmente dentro quel sistema. Anzi, lo alimenta. Perché anche il rifiuto, se raccontato pubblicamente, diventa spettacolo. Diventa narrazione. Diventa contenuto.
Il suo contenuto è potente ma ambiguo.
Denuncia una cultura fatta di apparenze, titoli accademici e conformismo ideologico. Ma nel farlo, si aggrappa a immagini altrettanto stereotipate: attori sinistrorsi, vestiti trasandati, che fanno i poeti maledetti mentre vivono in case di lusso. È la caricatura della caricatura. Ed è qui che qualcosa stride. Perché se il punto è superare le etichette, allora rispondere con altre etichette non è un modo per liberarsene: è solo un cambio di campo.
C’è però una verità che resta.
Morrone si espone. Dice quello che altri pensano e non dicono. Si fa bersaglio. E in questo, c’è un coraggio che vale la pena riconoscere. Ma è un coraggio che produce chiarezza? Oppure, come spesso accade quando si grida, rischia solo di rafforzare le trincee? Chi stava già dall’altra parte, ora alza ancora di più il muro. E chi lo applaude, spesso lo fa per tifoseria più che per riflessione.
Musa, come agenzia che lavora nella comunicazione, osserva questi meccanismi con interesse. Non perché voglia giudicare, ma perché riconosce il potere e il rischio di ogni esposizione. Quando uno sfogo diventa pubblico, non è più solo uno sfogo. È strategia, è posizionamento, è gesto comunicativo. E ogni gesto comunica anche quello che non dice. Morrone ci dice: “Non sono come loro”. Ma non ci dice mai davvero chi vorrebbe essere.
Il paradosso è evidente.
Chi vuole uscire dal gioco, per farlo, deve usare i canali di quel gioco. Parla in tv, poi su Instagram, poi sui giornali. E ogni parola, ogni post, ogni frase diventa materia per l’algoritmo, carburante per la visibilità. È una battaglia combattuta sul campo stesso del nemico. E forse è proprio questo che la rende così complicata da decifrare.
Non è detto che sia un fallimento. Ma è una storia che non ha ancora trovato il suo linguaggio.
Morrone vuole essere ascoltato, non solo guardato. Vuole essere preso sul serio. Ma per ora lo fa attraverso la rabbia, la contrapposizione, lo scontro. E non sempre questo aiuta a costruire empatia. La sua è una posizione netta, ma non è detto che sia chiara. È emotiva, sì, ma non sempre è comprensibile. È personale, ma rischia di apparire solo polemica.
Forse è proprio questo il punto più interessante.
Viviamo in un tempo in cui lo sfogo sembra l’unica alternativa alla finzione. In cui dire tutto sembra più autentico che dire bene. Ma la verità, per comunicare davvero, ha bisogno anche di forma. E in questo, lo sfogo di Morrone è un’occasione mancata. Non perché non dica cose vere, ma perché le dice in modo che rischia di renderle inutili.
Il prezzo di essere visto, oggi, è anche questo.
Non basta alzare la voce per farsi ascoltare. Serve dire qualcosa che resti. Qualcosa che apra spazi, invece di chiuderli. E qui, la comunicazione non è solo una questione di coraggio. È una questione di visione. Morrone ha scelto il coraggio. Ora resta da capire se, oltre alla rabbia, ha anche una visione da offrire.