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Edoardo Bove le lacrime e l’algoritmo: quando il brand non è calcolato

7 Maggio 2025
Edoardo Bove le lacrime e l’algoritmo: quando il brand non è calcolato

Edoardo Bove, le lacrime e l’algoritmo: quando il brand non è calcolato ma funziona lo stesso

Edoardo Bove, le lacrime e l’algoritmo: quando il brand non è calcolato. Sembra il titolo di un saggio strano, e invece è esattamente quello che ci siamo detti in agenzia appena abbiamo visto le immagini. C’era qualcosa in quel gesto che non poteva essere ignorato. Non era solo emozione, non era solo sport, non era neanche solo romanismo. Era tutto questo e qualcosa di più. Perché Bove non ha parlato. Non ha postato. Non ha spiegato. Ha solo pianto. E in quel pianto, inconsapevolmente, ha fatto più storytelling di un piano editoriale di tre mesi.

Il momento che ha bucato l’algoritmo senza chiederglielo

Il punto non è la lacrima. Il punto è il gesto che buca il rumore. Insomma, il punto è quando qualcosa non è costruito, non è progettato, non è pianificato. Eppure funziona. Anzi, proprio perché non è calcolato, si fa strada dove tutto il resto scivola via. Quel momento non era parte di una strategia. Ma aveva dentro una potenza comunicativa che chi fa questo mestiere dovrebbe studiare. Quando il brand non è calcolato, succede qualcosa. Perde il controllo, sì. Ma a volte, in quella perdita, trova l’eco giusta.

Il contro-brand come risposta alla saturazione del messaggio

In un contesto in cui tutto è messaggio, in cui anche il silenzio è strategico e ogni scroll è una guerra di attenzione, quello che non è previsto diventa prezioso. Se ogni brand è un progetto, allora ciò che non è progetto diventa contro-brand. E il contro-brand è quello che vince, perché è leggibile senza essere spiegato. Non serve un testo, non serve una caption. Serve solo un gesto, una postura, un’inquadratura. L’algoritmo, che tanto cerchiamo di domare, si ferma davvero solo davanti a ciò che non riesce a replicare.

L’identità che nasce da chi guarda, non da chi comunica

In quelle immagini c’è la costruzione di un’identità comunicativa che non ha bisogno di strumenti. Non ha bisogno di claim. Non ha bisogno di nessun content plan. È il racconto che si scrive da solo, perché il pubblico vuole scriverci sopra la propria versione. Ognuno ha visto in Bove qualcosa di diverso. Il tifoso ha visto l’appartenenza. Il romantico, la purezza. Il tecnico, la tensione. L’adulto, la giovinezza. Il comunicatore, un miracolo senza headline. Nessuno ha avuto bisogno di didascalie. Era tutto lì. Ed è questo il punto.

Quando il brand si rompe, forse è proprio lì che nasce

Quando il brand non è calcolato, ma è leggibile, è già un brand. Non serve volerlo essere. Basta diventarlo per incastro emotivo. E questo vale anche per chi fa marketing. Perché a noi interessa cosa succede quando i brand si rompono. Quando si incrinano, quando cedono il passo all’imprevisto. Non per fragilità, né per retorica. Ma per dinamica comunicativa. Perché in quella crepa entra qualcosa che di solito manca: la percezione reale. Il pubblico se ne accorge. E si avvicina. Condividere, in fondo, nasce da questo. Da un riconoscimento.

Lo spazio per l’imprevisto va costruito, non solo tollerato

Nel nostro lavoro cerchiamo sempre equilibrio. Tra il dire e il non dire. Tra il mostrare e il suggerire. E, poi, tra il progettare e il lasciare accadere. Ma la verità è che a volte l’effetto più potente nasce proprio quando lasciamo un margine all’imprevisto. Quando non blindiamo ogni pixel. Quando non testiamo ogni titolo. E quando, per assurdo, ci permettiamo di non ottimizzare tutto. Perché in quel margine può succedere qualcosa. Può succedere che il pubblico si fidi, senza dover essere convinto.

Non è vulnerabilità, è assenza di filtro strategico

Non vogliamo fare una lezione di personal branding. Né cadere nella tentazione di dire che serve mostrarsi vulnerabili per essere autentici. Quella strada è già stata battuta troppe volte. Vogliamo dire qualcos’altro. Vogliamo dire che un gesto non calcolato può valere più di una strategia intera. E che se c’è un insegnamento da portare a casa da quella serata all’Olimpico, è che la comunicazione vive quando smette di essere dichiarata. Quando diventa sotterranea, silenziosa, quasi biologica. Quando non parla. Ma si fa vedere.

Chi comunica bene è chi riesce a farsi leggere anche quando non dice nulla

Non sempre possiamo permetterci di lasciare le cose al caso. Ma possiamo costruire contenuti che lascino spazio. Spazio all’interpretazione, allo sguardo, alla proiezione. Spazio a ciò che non possiamo dire, ma che vogliamo far emergere. Soprattutto, spazio per il pubblico, che non deve solo leggere. Deve sentirsi dentro la scena. È questo che accade quando il brand non è calcolato. Diventa un’esperienza collettiva, che esiste anche senza noi. E forse è proprio lì che inizia davvero a funzionare.

E se imparassimo a lasciare più margine, anche nella strategia?

C’è una lezione più profonda che questo episodio ci suggerisce. Una lezione che riguarda la progettazione dei contenuti, dei funnel, dei piani editoriali, delle campagne. Forse dovremmo smettere di riempire tutto. Lasciare più spazio bianco. Più vuoti tra le righe. Più momenti che non servono direttamente a vendere, ma a costruire familiarità. Non ogni post deve convertire. Non ogni headline deve performare. Alcune devono solo stare lì, come lo stare lì di Bove sotto la curva, e aspettare che qualcuno le legga con i suoi occhi.

Il brand non è sempre ciò che dici, a volte è ciò che succede mentre non dici nulla

Pensiamo a quante aziende fanno di tutto per sembrare umane, senza mai riuscirci davvero. E poi arriva un ragazzo di ventidue anni che non dice una parola e ci riesce meglio di tutti. Non per capacità, ma per contesto. Non per strategia, ma per verità percepita. Questo ci insegna che forse il compito di chi comunica oggi non è tanto dire bene, ma saper lasciare accadere qualcosa che possa essere sentito.

L’algoritmo riconosce la voce, ma si ferma davanti al silenzio

Edoardo Bove, le lacrime e l’algoritmo: quando il brand non è calcolato ci ha ricordato una cosa essenziale. Nel rumore di ogni giorno, quello che davvero comunica è ciò che si muove controcorrente. In un’epoca in cui tutti cercano il modo migliore per essere notati, paradossalmente vince chi non lo cerca affatto. E noi, come Musa Studio, possiamo decidere di imparare da questo. Possiamo decidere di lasciare spazio, di progettare anche l’inaspettato. Possiamo decidere di non avere sempre l’ultima parola. Perché a volte, il vero contenuto è quello che resta dopo che tutto è stato detto.

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